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Pensare la pace


di Andrea Salvatore Alcamisi


Abdicare ad una riflessione internazionale sulla necessità della pace nelle sedi delle Istituzioni governative, deputate alla salvaguardia dell’amicizia tra i popoli della Terra, non renderà alcuna giustizia ai drammatici eventi che continuano a sconvolgere l’Ucraina e la Palestina. A suo tempo, ne fu certo il filosofo Immanuel Kant, una delle voci più vivaci del Settecento illuminato, secondo il quale la pace debba essere istituita da uno stato di legalità che ponga fine alla protervia tirannica, che consuma gli Stati in diffidenze ed ostilità, e restauri il dominio della ragione. All’iniziativa di una pace politica con i suoi inevitabili effetti benefici Kant dedicò il pamphlet Per la pace perpetua (1795), allorché il potere dispotico europeo fu scosso dal vento degli ideali rivoluzionari francesi.

Sotto la forma di un progetto che spingerebbe la filosofia ad influenzare l’arte della politica, umanizzandone i mezzi e scardinandone i fini utilitaristici, la tesi kantiana affonda il ragionamento sulla idea che la tranquillità che regola l’apparente convivenza tra gli Stati sia, in realtà, minata sibillinamente da un perenne stato di guerra, poiché l’assenza di conflitti non implica la certezza che, nell’immediato presente o nel futuro, la pace sia una condizione giuridica definitamente acquisita. Infatti, scrive Kant, l’esistenza degli eserciti e le corrispettive spese di gestione, che dissanguano le finanze statali, sono il segno tangibile di un latente clima bellico, pronto a scatenare il suo carico di distruzione. Ad ingrossare le fila degli eserciti, secondo il filosofo, starebbe il proposito dei sovrani di meditare, mentre essi stipulano accordi di qualsivoglia natura giuridica, alimentando così un fittizio stato di pace, la violazione del principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati, approfittando di una loro debolezza infrastrutturale. Per tale motivo, non è possibile impetrare una pace che sia veramente perpetua, ma, al contrario, transitoria nel tempo in cui l’odio, l’avidità e l’egoismo armino le mani di un intelletto che ha perso il raziocinio.

Dunque, il discorso kantiano considera il disarmo un retto prodotto della ragione che desidera fortemente superare il modello contrattualistico hobbesiano di quel grande Leviatano ossia di quella società in cui gli uomini, per porre fine allo stato di natura che vede l’umanità impegnata in una guerra perenne, stringono un patto, attraverso cui cedono ogni diritto ad un sovrano che si faccia garante della pace e della giustizia. Infatti, seguendo le riflessioni del suo saggio Che cosa è l’Illuminismo (1784), la consapevolezza della facoltà ragionativa induce l’agire umano a liberarsi da ogni sorta di vincoli e di posizioni di subalternità in forza del riconoscimento di una libertà individuale inviolabile. Tale affermazione di straordinaria portata chiama in causa il riconoscimento della dignità dell’individuo, asserendo così il principio secondo cui i sovrani cessino di servirsi dei sudditi come meri strumenti di meschini calcoli politici. Così, i sudditi, divenuti cittadini e obbedendo alla ragione rischiaratrice, sarebbero pronti ad assumersi una responsabilità civile e a rinunciare ad ogni atto delegante nella costruzione della pace, senza alcun ricorso alle armi. Ma la pace sarà possibile, afferma Kant, solo se si ammetterà uno stato di diritto che, per il filosofo, consiste unicamente nel rapporto che gli individui e le loro libertà tengono con il mondo esterno.

 

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